Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 06 marzo 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

1. Introduzione. Un intero percorso di riflessioni, al termine del quale ci siamo ritrovati nel solco tracciato quando cercavamo di comprendere la crisi del valore della bellezza, si è sviluppato a commento di un cineforum virtuale organizzato con degli studenti su un vecchio film dedicato alla vicenda giudiziaria che portò alla condanna a morte negli Stati Uniti degli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. La considerazione prevalente fra gli studenti ha riguardato l’impossibilità che si verifichi qualcosa di simile al giorno d’oggi perché “nessuno sarebbe così stupido da ammettere di essere anarchico sapendo cosa rischia”. Chi scrive, come gli altri membri della società partecipanti al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, è rimasto colpito dal fatto che nessuno dei ragazzi ha preso in considerazione il problema della condanna per un reato di opinione coperto dall’accusa di crimini mai commessi dai due Italiani, ma semplicemente ha considerato “sbagliato” o “inconcepibile” avere un ideale da difendere a costo della vita.

Nipoti e pronipoti di coloro che a scuola si facevano beffe degli eroi del Risorgimento e consideravano vuota retorica tutte le espressioni di idealità del secolo precedente, dalla fede romantica nella libertà alla passione civile mazziniana, forse hanno mutuato lo stesso cinico distacco dal Novecento o, più semplicemente e probabilmente, non conoscono né per studio né per esperienza persone formate a una dottrina che implica una visione del mondo, e che magari siano innamorate di tali idee al punto da farne ragione di vita.

Alcuni mi è sembrato che mancassero della capacità di concepire l’altruismo come atteggiamento sociale; altri apertamente hanno dichiarato di non credere che esista qualcuno in grado di anteporre una concezione astratta e futuribile ai propri interessi materiali; altri ancora hanno spiegato che “oggi sappiamo da chi e come è governato il mondo e nessuno si illude di cambiarlo a parole”. Queste considerazioni sono state sollecitate da domande che forse hanno indotto i giovani interlocutori a riflettere per la prima volta seriamente su questi argomenti.

Sicuramente da nessuna delle fonti tradizionali di contenuti e consapevolezza di realtà, quali la famiglia, la scuola, l’associazionismo giovanile e la lettura di saggi, sono venuti stimoli per la scelta di un credo religioso, un’ideologia politica e, men che meno, una filosofia. Considerato il tempo quotidianamente speso da ciascuno a comunicare mediante social-media, si può dedurre che i contenuti e gli argomenti degli scambi non riguardino astrazioni di senso o pratiche di vita ispirate a valori antropologici. E credo si possa affermare, senza consultare i resoconti analitici delle indagini socio-mediatiche, che all’ordine del giorno del “villaggio globale” non vi siano temi ideali.

Proprio questo deficit, almeno per come mi è apparso in questa esperienza, mi ha indotto a chiedermi se da una tale mancanza di conoscenza interiorizzata possa derivare una parte significativa dell’involuzione e del decadimento che caratterizza i nostri giorni.

L’ipotesi, che ha funto da traccia iniziale per le riflessioni che qui riporto in sintesi, è che l’impossibilità o l’incapacità di concepire una dimensione ideale renda difficile la rappresentazione mentale dei valori culturali sviluppati fin dall’antichità intorno a quell’astrazione positiva che chiamiamo bellezza[1].

 

2. L’obbligo implicito di comunicare l’attualità a scapito della riflessione è una ragione o un alibi per la latitanza del senso? A quanto pare, si procede a spanne nella società della comunicazione, reagendo a ciò che viene reso prioritario da chi ha maggiore potere di influenza, e raramente si sente nell’agorà mediatica permanente qualcuno che intervenga sulla base di una concezione ideale dell’uomo e del mondo, e la proponga come paradigma di valori e di senso per interpretare il presente e vivere la contingenza. Raramente si incontrano persone che vivono con coerenza ideale la propria vita, secondo una virtù ammirata già nell’Atene del IV secolo a.C. e celebrata nella storia fino ai nostri giorni; raramente si sente deprecare chi disprezza questo alto senso morale, che ritroviamo nelle tradizioni orientali cinesi e indiane, come nel codice d’onore dei samurai. In tutte le culture antiche studiate in epoca moderna – si pensi anche agli Egizi e alle civiltà della Mesopotamia[2] – si trova come qualità distintiva del valore umano, generalmente legata alla dimensione trascendente, l’impegno ideale oltre i propri interessi materiali[3].

Un impegno in molti casi sostanziato dal rispetto dell’altro: dall’amore del prossimo, ebraico e cristiano, alla filantropia dei filosofi, dalla magnanimità dei prìncipi ai sodalizi di mutuo soccorso, dalla dedizione di religiosi e medici missionari a quella degli attivisti per i diritti umani, la storia e le cronache sono ricche di esempi di dedizione altruistica e generosità oblativa. Per contro, quando il rispetto dell’altro è stato circoscritto ai correligionari, ai connazionali o a una classe sociale, non sono mancati i lutti, i massacri e le stragi delle guerre e delle rivoluzioni; non per colpa dell’idealità, ma di tutti coloro che, anziché vivere il proprio impegno militante e interpretare quello dell’altro come dono di sé per migliorare la vita del prossimo, lo hanno considerato parte di un conflitto con un nemico da uccidere[4].

La virtuale scomparsa dei temi ideali dall’attualità collettiva e dei singoli ha ragioni in parte evidenti e banali, tanto da rendere superfluo il menzionarle, in parte profonde, in quello che nelle trattazioni scolastiche delle transizioni epocali si chiamava “mutamento delle coscienze”. Da ragazzo ero convinto che all’origine di molti mali di quella lenta decadenza definita crisi dalla convenzione intellettuale basata sulla concezione postmoderna, vi fosse l’abbandono dell’alveo della filosofia da parte della cultura, che sembrava essersi completamente consegnata all’ideologia, una padrona poco affidabile perché nutrita del culto autoreferenziale di sé stessa. Una padrona che seduceva per la capacità di offrire il miraggio di cambiarti la vita e illudeva sul suo reale potere, per la rapida espansione della base dei suoi interpreti, attraverso quel reclutamento di infatuati convinti di contare grazie a lei, che si chiama proselitismo. Una padrona forte dell’insistenza delle proprie tesi e sorda alle istanze esterne al proprio culto, che non cercava il senso ma il consenso, e che avrebbe traghettato sudditi e adepti dalla terra della conoscenza alle sponde del conflitto.

Oggi, ad essere sincero, non la penso in modo tanto diverso, anche se comprendo meglio le radici profonde di quella transizione, che aveva origini lontane e non era un semplice cambiamento epocale di quel periodo. E, soprattutto, mi rendo conto che questa ragione o, per dirla alla moda dell’epoca, “questa angolazione prospettica sull’orizzonte della crisi” sia una delle probabili cause oggettive o, meglio, uno dei tanti fili logici interpretativi di una realtà umana che, in quanto tale, è per definizione complessa.

Dalle epoche più antiche ai giorni nostri si legge di giovani che, invece di limitarsi a tentare di migliorare la propria vita, desiderano cambiare il mondo. Il cervello umano pare che non sia molto cambiato negli ultimi 100.000 anni e, in base alla costanza di rapporti fra strutture cerebrali e morfologia ossea del cranio, i paleontologi sono certi che l’encefalo di Homo sapiens sapiens risalente a circa 30.000 anni fa fosse del tutto indistinguibile dal nostro.

Dunque, se oggi è così raro incontrare giovani con grandi tensioni ideali, la ragione non è certo neurobiologica, ma è da cercarsi nella realtà del mondo che ci circonda, a cominciare dalle generazioni dei padri e dei nonni che lo hanno edificato o hanno permesso che si edificasse. Un presente che mi piace descrivere come un labirinto di specchi e vetri morbidi o virtuali, disposti a cedere o scomparire sotto pressione, ma capaci di rigenerarsi continuamente, riflettendo o lasciando trasparire il miraggio di un sé stesso appagato nella passività.

Ma, torniamo a quella combinazione di banalità volgare e degrado morale imbellito dal nuovo e pulito delle forme della moda o ipocritamente imbiancato, come i sepolcri di evangelica memoria, cui si vuole che tutti noi si appartenga.

L’abitudine a comunicare la rozzezza di contenuti concretistici e a cercare lo scambio di opinione su argomenti futili, spesso seguendo codici linguistici di ottusa volgarità, non è solo una moda imperante ma uno stile di vita che, in mancanza di critica o censura, si diffonde sempre più.

Negli ultimi vent’anni non sono mancate le spiegazioni sociologiche di pensatori improvvisati che, facendo leva su una malintesa e male applicata accezione dell’aforisma di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio”, hanno attribuito la povertà di contenuti nella vita contemporanea agli strumenti telematici di comunicazione e, talvolta, al progresso scientifico e tecnologico che ne ha permesso la realizzazione.

È ormai pura evidenza sotto gli occhi di tutti la realtà che irride questa assurda forzatura, inadatta per creare alibi perfino agli occhi di coloro che vivano in uno stato di “coscienza crepuscolare”. Un quarto di secolo fa, all’epoca degli esordi della rete che la CIA ha dismesso e consegnato al mondo, è possibile che vi siano state molte persone intimidite e inibite dalla novità, al punto di credere che quello di internet fosse un mondo a parte per forma e sostanza, e magari così sprovvedute da apparire come “scemi del villaggio globale” o, come si diceva per celia in Italia, minus habens informatici, in quanto a quell’epoca era ancora necessaria una sia pur iniziale alfabetizzazione informatica per i collegamenti alla rete via computer. Ma oggi un’ingenuità sprovveduta di tale portata è solo un lontano ricordo[5].

La responsabilità dell’oggetto della comunicazione e del modo in cui lo si tratta è senza dubbio di coloro che usano questi mezzi immettendo i contenuti: gli strumenti telematici rappresentano solo degli straordinari moltiplicatori, diffusori e acceleratori di tutto quanto fungeva da veicolo del pensiero già in passato. È cosa, oggi, di un’evidenza assoluta.

Gli estremisti islamici non usano certo i siti web e i social media per commentare le mortificanti banalità dei reality show ma, come hanno rivelato tante indagini di polizia internazionale, li impiegano per trasmettere testi di lunghe, articolate e complesse esegesi coraniche di indottrinamento o per giustificare crimini e nefandezze, usando i messaggi brevi “stile twitter” per rinforzi d’intesa, appuntamenti o segnali. La Chiesa cattolica vi diffonde, fra l’altro, migliaia di omelie, studi di patristica, riti in diretta e messaggi a supporto delle opere missionarie. Non è certo un mistero l’esistenza di anonimi che usano siti web per diffondere interi corsi di formazione ingegneristica per la costruzione di ordigni bellici e i social media per le contrattazioni con gli acquirenti. La scuola, l’università e la ricerca scientifica non ne possono più fare a meno, e i contenuti – possiamo garantire in tanti – sono il riflesso dello stesso patrimonio custodito dalle nostre biblioteche e non della dimensione del “degrado alla moda” in cui dei superficiali operatori dell’informazione hanno collocato i nuovi modi di trasmettere parole e immagini.

E allora? Credo che non valga la pena soffermarsi ulteriormente sulle caratteristiche di costume determinate da mezzi e stili di comunicazione, per cercare di sviluppare delle riflessioni sulla perdita di valori condivisi che ha progressivamente disintegrato quel tropo di coincidenza etico-estetica, o kalokagathìa, da noi spesso citato discutendo di bellezza.

 

3. È cruciale l’esercizio della capacità di distinguere in base a categorie astratte per rilevare, riconoscere e apprezzare ciò che vale. Per paura di discriminare si smette di distinguere. Eppure questo è sbagliato anche in chi fa del paradigma politico dell’eguaglianza il proprio riferimento psico-antropologico assoluto: non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali, diceva Don Milani in Lettera a una professoressa[6]. Benedetto Croce, al di là dell’opinione che si abbia della sua filosofia, è spesso citato per il suo ripetere “ragionare è distinguere”, onorando i principi di quella logica che Wittgenstein portò in quegli anni ai più alti vertici con il Tractatus logico-philosophicus[7]. Opera che, oltre a influenzare direttamente o indirettamente nel metodo la maggior parte dei pensatori contemporanei, ha contribuito ad accrescere la precisione razionale nella didattica, nell’informazione e in una parte della cultura popolare, suggerendo la possibilità di usare criteri logici per comprendere ogni cosa, dai fenomeni naturali al linguaggio. Fra le distinzioni proposte da Wittgenstein è celebre la differenza tra il dire e il mostrare, da lui ritenuta il problema fondamentale della filosofia. In breve, dopo aver raggiunto questo livello di elaborazione e metodo, si comprende che un pensiero che rinunci all’uso delle categorie naturali presenti alla nascita nel cervello umano, non avrebbe oggi alcun interesse e seguito.

Non si può dunque attribuire a un pensiero filosofico, sia pure paradossale, la tendenza ad appiattire, misconoscere o non rilevare differenze anche evidenti fra fatti, opere e circostanze, e se la mia ipotesi del condizionamento per generalizzazione equivoca della forma comunicativa antidiscriminatoria del politically correct imperante nei media si dimostrasse fondata, non sarebbe tuttavia da sola sufficiente a giustificare una tendenza così diffusa ed estesa. E quindi non resta che ammettere l’esistenza di una forma di desistenza intellettiva, una sorta di astensione o rinuncia all’uso dell’elaborazione intelligente della realtà, probabilmente quale esito di un contagio collettivo dell’atteggiamento di passività mentale.

Eppure, la distinzione è letteralmente connaturata alla nostra mente perché costituisce un processo elementare onnipresente nell’elaborazione dell’informazione e paradigmaticamente originata dal processo cerebrale di discriminazione percettiva.

Nei processi cognitivi elementari, quali quelli legati all’elaborazione sensoriale e consistenti in ciò che comunemente definiamo percezione di un colore, di un suono o di una temperatura si rileva una particolare qualità distinta dalle altre, che ci consente l’identificazione: una lacca di garanza scarlatta, il timbro acuto di un ottavino, il tepore del corpo di un gattino neonato sono diversi da un verde smeraldo, dalla nota grave di un basso-tuba e dal calore del piatto di una minestra appena servita. Il nostro mondo percettivo è un mondo ricco di varietà riconosciute per somiglianza e differenza.

All’origine dell’identificazione degli stimoli vi è la discriminazione, consentita in primo luogo dalla rilevazione differenziata, consistente, ad esempio, nella risposta di gruppi neuronici differenti a stimoli diversi con specificità di rapporto 1:1 fra gruppo di cellule nervose ed elemento caratterizzante rilevato. Il riconoscimento implica, naturalmente, l’attivazione della memoria di risposte precedenti[8].

Una nozione significativa, per la comprensione delle basi neurofisiologiche dei processi psicologici di valutazione, è che il cervello, nell’attribuzione di qualità percettive elementari, giudica per comparazione. Per renderci conto di questo, basta riflettere su esperienze della vita quotidiana: ad esempio, quando regoliamo la temperatura dell’acqua mentre siamo sotto la doccia, quella che ci va bene per le mani può sembrarci fredda per la schiena. Il cervello, attraverso lo stato biofisico e la trasduzione biochimica in segnale neurale dello stato dei recettori cutanei, computa l’informazione termica non come dato assoluto, come farebbe un semplice termometro, ma quale differenza tra lo stato termico della zona cutanea e la temperatura dell’acqua. Per questa ragione, la temperatura dell’acqua di una doccia calda fatta in estate, se la sperimentiamo d’inverno, pare che ci scotti le mani. Il giudizio per comparazione è ancora più evidente per la sfera visiva: dai passaggi dall’ombra alla luce agli effetti ottici basati sulla comparazione tra figura e sfondo o tra colori e toni accostati, gli esempi possibili sono innumerevoli.

I processi cerebrali necessari alla percezione, insieme con l’esecutività ideomotoria, possono ritenersi come delle operazioni paradigmatiche alla base di tutto l’agire mentale che, attraverso una miriade di sofisticate e complesse attività neurali, compone la psiche umana.

In un’ottica neuroscientifica possiamo definire la distinzione come il paradigma di base che la percezione impone alla logica che voglia rimanere aderente alla realtà.

 

4. Perdita di interessi o piuttosto perdita di paradigmi di senso per l’attribuzione di valori dai quali originano giudizi, motivazione e interesse? Si sente dire che, come è accaduto per il mondo inteso quale pianeta Terra, non più visto come dimensione da esplorare, sarebbe accaduto per la mente: il fascino della scoperta dell’ignoto che è dentro di noi, il desiderio di comprendere le ragioni del “corpo dello spirito” e il dovere di conoscere sé stessi, come comandava l’Oracolo di Delfi, sembra che, improvvisamente, non interessino più nessuno. Sinceramente non sono convinto che le cose stiano così, sia perché continuo a registrare l’interesse di molti giovani per le neuroscienze sia, soprattutto, perché la perdita diffusa di attenzione e iniziativa nel vivere la conoscenza mi appare come un fenomeno più generale, che potrebbe derivare in parte anche da un deficit di interiorità.

È innegabile che ai nostri giorni non c’è più l’attenzione alla dimensione interiore, a quello spazio-tempo dell’essere che nella cultura greca coincideva con l’etimologia della parola theatron: uno spazio mentale in cui si rappresenta un fatto dello spirito. È in questa esperienza individuale della coscienza, nella nostra tradizione coltivata fin dall’infanzia attraverso le astrazioni religiose e vissuta in chiave morale, che si concepisce il registro ideale, proprio e degli altri. L’empatia ideale, che consente l’identificazione con estranei attraverso la percezione di aspirazioni comuni e si manifesta con sentimenti ed emozioni, è possibile grazie all’esercizio di questa interiorità.

Non avere una dimensione interiore rende molto difficile sviluppare precisi valori di senso astratto quali riferimenti individuali per l’esercizio delle facoltà di critica e di giudizio. Se poi manca anche il riferimento ambientale del limite, da introiettare o contestare, è facile che non si costituisca un paradigma interno ben definito e si tenda all’emulazione superficiale, a seguire passivamente la maggioranza o a disinteressarsi di tutto ciò che non trova corrispondenza interiore.  

La formula che sto per esprimere non vuole essere in alcun modo una tesi filosofica, ma rappresenta una semplice deduzione basata su testimonianze di valore storico che fanno parte del patrimonio culturale comune. Credo si possa, al massimo, riconoscerle una valenza di psicologia antropologica: la perdita dell’errore nell’arte e del peccato nella morale collettiva ha reso incerto e opinabile il brutto e il male, contribuendo a indebolire lo statuto e il valore del bello e del buono.

Provo a sviluppare delle argomentazioni a sostegno di questa affermazione.

Nel ventesimo secolo i movimenti ideologici sulla creatività e le avanguardie artistiche, con la ribellione all’accademia, alle sue regole, al suo gusto e ai suoi valori, con la lotta al figurativo, al disegno e all’imitazione del vero hanno finito per eliminare il concetto di errore. Non era più concepibile, come era stato dai tempi del Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci[9] alle lezioni di Francesco Hayez all’Accademia di Venezia, che la fedeltà alla riproduzione del vero costituisse il principio guida per l’artista e che lo sviluppo di uno stile si promuovesse attraverso l’educazione del gusto. Con i criteri classici qualsiasi osservatore poteva accorgersi di una sproporzione nelle membra di una figura o di un’incongruenza prospettica, e su questa base esprimere un giudizio; il compito del maestro era quello di definire analiticamente l’errore e indicare il modo per correggerlo.

La tecnica nell’arte non era più capacità di eliminare gli errori di “grammatica grafica” e “sintassi compositiva” per sedurre con il bello, ma conoscenza di trovate, trucchi, artifici o tecnologie elettroniche per colpire con il nuovo. La tecnica intesa come abilità esercitata viene discreditata e disprezzata quale pratica priva di valore: si ritiene che solo dilettanti o incompetenti possano confonderla col valore artistico, che invece si attribuisce all’effetto di originalità e al “messaggio” trasmesso dall’opera.

La nostra società, sociologicamente scristianizzata, ha perso il senso del peccato; cosa che costituisce la perdita di un limite etico condiviso, ma soprattutto la perdita di un riferimento immutabile, assoluto e non dipendente dalle contingenze perché relativo a Dio, che consente di definire, comprendere e riconoscere il bene nel modo più semplice, ossia come l’opposto, il contrario del peccato.

Il rapporto del soggetto con il concetto di male è stato di fondamentale importanza per il corso degli eventi della storia e per l’evoluzione delle forme di rappresentazione collettiva della coscienza, da quelle religiose a quelle del diritto.

Senza il peccato non c’è valore per la virtù concepita come suo opposto. Il male del peccato come assenza di amore consente di comprendere il bene della virtù e della Grazia. La prima concepita come pratica costante della volontà divina e la seconda quale anticipo su questa terra della beatitudine eterna.

Il cristianesimo introduce un criterio di uguaglianza davanti a Dio che consiste nell’uguale potenzialità di peccare e trovare misericordia; non elimina le differenze, le ridefinisce in senso divino, cancellando quelle legate alla concezione di valore del potere umano nel mondo, ma stabilendo altre gerarchie, con molti ultimi del mondo che saranno primi del cielo. La visione cristiana elimina le rendite di posizione e riconduce la stima dell’uomo al giudizio divino: tutti possono compiere il male e tutti siamo peccatori; tutti possiamo essere perdonati se il pentimento costituisce intenzione che si traduce in azione nel bene. Su tali presupposti si basa anche un carattere precipuo della coscienza e dell’atteggiamento cristiano: la vigilanza.

La persona che vive la responsabilità “nel tempo della prova” e vigila costantemente su sé stessa, difficilmente conosce la pigrizia, l’ignavia, l’abulia o l’indifferenza per fatti, giudizi e valori che incontra nel quotidiano.

La pedagogia cristiana, che nasce come compimento dell’opera di misericordia “insegnare agli ignoranti”, fonda la sua pratica su due pilastri dottrinali: il valore della sapienza per la prevenzione del peccato e la correzione fraterna quale obbligo caritatevole sancito dal Vangelo, consistente nel soccorso all’errante mediante l’indicazione dell’errore.

Nella storia nasce così la scuola, nelle collegiate dei conventi, negli oratori, in locali annessi alle chiese e solo raramente presso le dimore di benestanti caritatevoli che offrivano, come le istituzioni ecclesiastiche, luogo e modo ai bambini del quartiere, compresi gli orfani, i figli di genitori indigenti o che comunque non potevano permettersi di pagare un precettore, per incontrare i religiosi che li avrebbero alfabetizzati e poi, attraverso la disciplina dello studio e la comprensione del senso edificante del conoscere, li avrebbero formati alla saggezza spirituale. Tanto avveniva già secoli prima che Carlo Magno istituisse la scuola pubblica, attribuendo allo stato l’obbligo dell’istruzione.

La pedagogia cristiana, che per due millenni ha forgiato uomini, sensibilità e coscienze, si è avvalsa di due strumenti di limite per guidare sviluppo e apprendimento: il peccato per la coscienza, l’errore per il comportamento[10].

Fin dall’antichità era nota l’importanza della correzione nell’educazione, come si legge nei libri sapienziali della Bibbia e nei maggiori filosofi greci; a questo ruolo di intervento si può ricondurre l’idea, adottata poi nella trasmissione del sapere e di ogni sorta di arte e tecnica, del modellamento comportamentale, che richiede il mettere alla prova e verificare se è stato appreso quanto trasmesso, confermando ciò che è giusto e modificando ciò che è sbagliato.

Un merito sconosciuto dell’insegnamento cristiano è il contributo allo sviluppo di abilità cognitive di alto livello di astrazione.

L’insegnamento del catechismo attraverso le parabole evangeliche abitua alla comprensione di categorie concettuali astratte alle quali può appartenere o meno un atteggiamento mentale o un comportamento: ad es.: “tutti quelli che credono in questo modo o che compiono azioni di questo tipo rientrano in questo giudizio”.

Le categorie in questione non sono quelle scolastiche elementari di forma e colore, alle quali un bambino può assegnare correttamente un oggetto per semplice associazione. Sono definite da astrazioni morali e, per giunta, costituiscono “classi aperte”[11], obbligando alla reale comprensione concettuale dei requisiti distintivi per decidere correttamente l’appartenenza[12].

Una volta ho suggerito di condurre uno studio per verificare quali variabili ambientali connesse con l’apprendimento influenzassero la capacità dei bambini di comprendere le metafore e impiegare spontaneamente come paradigma un concetto-chiave, applicandolo all’insieme di situazioni appropriate. La mia richiesta derivava da un’osservazione personale: bambini e ragazzi che avevano difficoltà nell’intendere allegorie, metafore e simbolismi e nell’impiego di paradigmi da adattare per la soluzione di problemi, avevano genitori atei o indifferenti in materia religiosa. Al contrario, bambini e ragazzi più bravi in questi compiti avevano genitori credenti, cristiani praticanti, e avevano familiarità con categorie morali, simbolismi e metafore delle parabole evangeliche.

 

5. La dimensione narrativa fin dall’epoca classica è stata impiegata per trasmettere valori morali e criteri di giudizio. Se si accetta la ragionevole ipotesi della nascita delle fiabe dalla pratica familiare di raccontare i miti ai bambini, adattandoli al loro modo di intendere, possiamo ritenere che le favole abbiano costituito un’evoluzione del racconto fiabesco sviluppato secondo i fini di una precisa intenzione pedagogica o di insegnamento.

L’intento moratorio delle favole, contrapposto al puro gioco di fantasia delle fiabe, conserva valore attraverso i secoli, e così da Esopo a Fedro, fino agli autori moderni, le trame isomorfe di temi costanti, quali nuclei e modelli di significato, trasmettono l’elementare saggezza che ha illuminato esperienze di vita rendendole vere figure di senso per ogni buon uso presente.

L’asino che calpesta il flauto come fosse una canna secca perché non sa trarne suoni melodiosi, ci ricorda che il riconoscimento del valore non è affatto scontato e richiede conoscenza; il lupo che accusa l’agnello, che è presso il fiume più a valle di lui, di sporcargli l’acqua, ci avverte che la superbia del prepotente non rispetta nemmeno la logica; la volpe che, non riuscendo a raggiungere l’uva di una vigna troppo alta per i suoi salti e dice che è acerba, è addirittura citata come figura del processo mentale di svalutazione, un caso particolare del meccanismo di razionalizzazione, inteso dalla psicoanalisi come costruzione razionale indotta da processi inconsci di adattamento o difesa, in grado di proteggere la psiche cosciente dalla frustrazione derivante da un fallimento.

Uno degli insegnamenti frequenti e ricorrenti delle favole è la priorità del bene: chi fa il bene troverà la bellezza, anche se è nell’apparente bruttezza della povertà, come nel caso di Cenerentola.

La fanciulla, maltrattata dalla matrigna e vittima delle angherie delle sorellastre gelose, non si lascia andare a rispondere al male, ma rimane costante nel bene, apparendo come un modello di perseveranza: subisce ingiustizie, è mite, semplice di spirito e pura di cuore[13].

E poi, l’agatos greco, ossia chi eccelle in valori morali è sempre superiore all’areté, cioè colui che è abile per perizia: nelle favole, se sei stimabile per la tua rettitudine, anche se sei maldestro, meriterai sempre l’amore dei tuoi cari, come nella deliziosa storiella in cui un uomo si reca al mercato a vendere un asino e, dopo aver accettato per dabbenaggine una serie di baratti svantaggiosi, torna a casa con un sacco di mele marce, e al racconto dell’accaduto alla moglie si sente ripetere: “Quello che fai tu, marito mio, è sempre ben fatto”[14].

L’obbedienza a genitori e maestri, ossia la sottomissione a Dio nel registro dell’esperienza infantile, consente di accedere al giudizio morale di sé stessi. In proposito, lo scorso anno scrivevo:

In altri termini, poco per volta il bambino comincia a imparare che il “come sono” non coincide con il “come mi sento”, ossia con lo stato di appagamento dei propri bisogni, ma con il grado di soddisfazione del desiderio dei genitori. È proprio l’entrata in gioco del desiderio dell’altro, il passo psicologico decisivo per avviare la formazione di quel tratto della consapevolezza sociale di sé su cui si fonda gran parte della vita di relazione in età adulta[15].

 Sperimentando l’introiezione delle regole nella fase eteronomica, il bambino impara a dare la priorità al dovere e, assumendo le prime responsabilità nel contesto simbolico e sociale dei rapporti, comincia a considerare il piacere come istinto egoistico che rifiuta la responsabilità e delude le aspettative di chi lo ama. L’abilità di Carlo Lorenzini, alias Collodi, consiste nel rappresentare anche gli aspetti conflittuali di questa crescita interiore guidata da valori cristiani, in una storia che ha spesso accomunato genitori e figli nel gradimento: Pinocchio cede alla tentazione del paese dei balocchi, ma qui scopre che il valore del tempo nella coscienza è connesso a quello del luogo, e questa evasione spazio-temporale lo porta fuori del senso. Un costo insopportabile: non è in gioco la punizione per una piccola disobbedienza, quale quella di non voler bere la medicina amara, ma l’esito negativo della ribellione al sistema simbolico che regge il significato dell’esistenza di ciascuno. Allora il bambino, non più burattino alla mercé dei capricci, torna come un piccolo figliuol prodigo sulla retta via che conduce all’amore del padre e al suo posto nel mondo: attraverso l’obbedienza Pinocchio fa esperienza della bellezza della verità.

Se Cenerentola, o almeno una che le viene accostata, fa la prostituta invece di essere un esempio di integrità che sopporta i maltrattamenti per obbedire alla volontà divina, ossia è una donna che dà in uso il proprio corpo allo sfogo sessuale di clienti occasionali, come nel film Pretty Woman e tutti quelli recenti dello stesso filone, non siamo in presenza di un aggiornamento della favola, come è stato detto. Il cambiamento di prospettiva è radicale. Lo stile morale di Cenerentola riflette la cultura della maggioranza e costituisce il modello di bene proposto all’identificazione delle bambine, per incoraggiare un “cercare in primo luogo il Regno dei Cieli, perché tutto il resto vi sarà dato”, perfino un “principe azzurro”. Il valore in gioco non è il danaro del principe come per gli sceneggiatori di quei film. La bellezza della favola consiste nel fatto che il premio di andare in sposa al principe viene dato a chi lo ha meritato con la sua bontà, che le fa amare di un sentimento sincero e oblativo il futuro sposo, e non alle perfide sorellastre che lo desideravano per vanità e brama di onori e potere.  Definire “cenerentola” una prostituta di scarsa fortuna presuppone che il meretricio sia una condizione comune fra le donne, distinte solo in poco abbienti, come Julia Roberts, e ricche, come quelle dello show business[16].

Chi considererebbe i film di quel filone come delle operazioni anticristiane e contrarie a valori elementari di civiltà? Probabilmente nessuno; anche perché non era nell’intendimento degli autori. Ma se si mettono insieme tutte le manipolazioni contemporanee del patrimonio di due millenni di narrativa pedagogica, ci si rende conto che queste riletture, nel flusso di fenomeni socio-antropologici molto più rilevanti, possono aver contribuito, sia pure come “gocce nel mare”, al cambiamento di alcune basi dell’ethos a fondamento del senso comune.

A proposito dell’impatto sociale della concezione pubblica della mercificazione dell’intimità, è significativo l’esempio tedesco. In Germania, dopo la legalizzazione della prostituzione, anche per l’arrivo di ragazze da altri paesi dove la vendita di rapporti sessuali è vietata o rende molto meno, il numero delle prostitute è vertiginosamente cresciuto, superando le 400.000 unità in breve tempo fra le donne regolarmente registrate. Oggi la Germania ha 5 volte le prostitute dell’Inghilterra. Come le “lavoratrici del sesso” indonesiane o di altri paesi asiatici, le prostitute europee oggi chiamano lavoro, spesso con orgoglio, la loro attività.

Nella visione ebraico-cristiana la prostituzione costituisce una pratica odiosa perché consiste nel trarre profitto dal peccato, ossia guadagnarsi da vivere offendendo il Signore deliberatamente e costantemente.

 

6. La psicologia individuale influenzata dalla dimensione interiore e dai costumi sociali dà forma ai sentimenti: pudore e vergogna. Nella cultura collettiva questi due sentimenti sono così intimamente connessi con la coscienza morale, che si dice “è senza vergogna” per deprecare un trasgressore impenitente di leggi, regole e costumi; implicitamente significando che si comporta come uno che, non avendo consapevolezza di sé e di ciò che fa, non può provarne vergogna.

Pudore e vergogna, così come li conosciamo, hanno origine nel rapporto che avevano gli antichi Ebrei con Dio e sono divenuti parte della cultura occidentale con il cristianesimo. Nel mondo classico i due concetti hanno una diversa origine e sono sviluppati con una differente calibratura: quasi mai si riferiscono a esperienze di nudità del corpo e riguardano affetti minori più vicini al disagio e all’imbarazzo che al dolore e all’angoscia, eccetto che nell’uso iperbolico dell’aneddotica mitografica, come nel racconto riferito ad Omero, che morì di vergogna per non essere riuscito a risolvere un enigma propostogli da bambini che giocavano su una spiaggia.

Rimanendo al mondo classico, quando Ovidio parla di vergogna, impiegando il termine latino pudor, si riferisce al disagio emotivo provato dall’uomo (vir) che, per ragioni fisiologiche indipendenti dalla sua volontà, non è riuscito a compiere l’atto sessuale. Un senso, questo, che possiamo collocare nell’ordine della frustrazione e del rispetto umano e non dell’intimità della coscienza con l’Allocutore divino.

Istruttivo circa la concezione dei Greci è l’episodio di Baubo nell’inno omerico A Demetra, la divinità delle messi e dei raccolti. Baubo, sposa di Disaule, probabilmente identificata con una dea della fertilità del sostrato arcaico, per strappare un sorriso a Demetra, piombata nello sconforto dopo la perdita della figlia Persefone e rimasta chiusa nella tristezza del suo lutto, si esibisce grottescamente denudandosi il ventre e mostrando la vulva. La scena provoca l’ilarità del figlio di Demetra, Iacco, che induce al riso anche la madre. Mostrare i genitali in pubblico era dunque una cosa da ridere, un atto buffo perché imprevedibile e inappropriato, ma niente di più[17].

Questo non vuol dire che i Greci non legassero la rispettabilità della persona alla riservatezza sessuale, ma solo che violare la regola di un composto decoro non costituiva un errore in assoluto, quale è il peccato, esemplarmente rappresentato dalla colpa di impudicizia[18] degli Ebrei, ma semplicemente il contravvenire un costume civile, rivelando rozzezza o volgarità.

La concezione dei Greci al riguardo è stata trattata con competenza da Monica Lanfredini in un suo saggio recente[19], nel quale spiega che le donne di casta elevata osservanti delle regole di condotta che includevano la verginità, per questo poi definita castità, disprezzavano i comportamenti disinvolti in ambito sessuale e condannavano le attività pur considerate legali di meretricio delle pornai, delle auletridi e anche delle etere, ossia le colte concubine di filosofi, poeti e uomini di potere. Anche se nella doxa, nell’opinione media, non era assunto il severo giudizio delle vergini aristocratiche e delle sacerdotesse, era indiscussa la necessità di distinzione, riflessa nella legge, come ricorda la Lanfredini: “…la legge obbligava le etere, proprio in quanto potenzialmente indistinguibili dalle caste vergini e dalle irreprensibili signore della città, ad indossare abiti fiorati…”[20]. Emblematico dell’atteggiamento ambivalente delle istituzioni, garanti della correttezza civile ma influenzate dalle passioni popolari, è il caso della ricchissima e famosa etera Frine: seguita da folle in delirio durante le Eleusine e le Posidonie quando si immergeva nuda come Venere nelle acque, si offrì di pagare la ricostruzione delle mura di Tebe, suscitando l’entusiasmo popolare; ma quando, come un moderno sponsor, pose la condizione dell’incisione del suo nome sulle mura ricostruite, si vide opporre un rifiuto dalle autorità[21].

Le etere potevano comprare, vendere, assumere la titolarità di attività culturali e commerciali, ma non potevano accedere a cariche pubbliche o svolgere ruoli di responsabilità morale ed erano bandite da tutti i templi delle città, eccetto quelli della loro protettrice Afrodite Pandemia[22]. Lo stile di vita improntato al predominio dei sensi e all’uso strumentale della sessualità era tollerato, ma penalizzato: la cultura ispiratrice del logos delle istituzioni della polis, che induceva ad interdire le prostitute fuorilegge collocate ai trivi, le triviali di epoca romana, lasciandole fuori delle mura della città, integrava quelle che si sottomettevano all’autorità della polis pagando le tasse, ma sottolineava la mancata identificazione con il loro ethos, ponendo loro dei limiti e rendendo riconoscibile la loro differenza.

Dunque, sussisteva la concezione di errore, sia pure non nei termini del peccato mortale ma di una semplice caduta di stile, ovvero un qualcosa di brutto, che in qualità di opposto supportava per contrasto il valore ammirevole della castità, associata spesso a una diamantina e luminosa integrità di spirito, intesa come verità della bellezza espressa da soavità e levità del carattere e dell’intelligenza.

La differenza di sensibilità fra il mondo classico e quello medievale e moderno è evidente quando si pensi al pudore della fanciulla che si preoccupa di celare ciò che può suscitare desiderio in un uomo, inducendolo al peccato di pensiero del quale rischierebbe di condividere la colpa; e la vergogna che le arrossisce le guance se, per un movimento involontario in presenza di un giovane che l’ammira, lo spostarsi di un indumento lascia intravvedere un poco più di quanto voglia il limite del consentito.

Tra la sfrontatezza di Baubo e questo delicato sentire c’è più distanza di quanta se ne vede tra le figure dell’amor sacro e dell’amor profano dipinte da Tiziano: vi sono secoli di storia durante i quali la Legge ebraica è diventata tenero amore nel cuore dei cristiani, e l’obbligo imposto con la pena di morte è diventato desiderio di non arrecare sofferenza a quello Spirito divino che è entrato nella storia umana per cancellare il peccato col suo sacrificio.

Non mi soffermerò sull’etimo del termine italiano vergogna[23], anche se è interessante notare che lo sviluppo e lo studio dei suoi significati secondo il pensiero cristiano ha avuto nel nostro paese un’origine preminente, stante la centralità della Chiesa di Roma.

Estremamente istruttiva, per comprendere la concezione che lega il corpo al peccato, generando la forma cristiana dei sentimenti di pudore e vergogna, è la lettura dello scritto più antico del padre della chiesa Gregorio di Nissa, ossia il Perì Parthenías o De Virginitate, scritto nel 371 d.C. soprattutto allo scopo di mostrare come l’ascetismo possa condurre alla visione mistica di Dio. Mi sembra particolarmente interessante la concezione del Nisseno, sia da un punto di vista culturale perché lui, Greco di cittadinanza era profondo conoscitore ed estimatore della filosofia greca dell’età classica, sia in termini religiosi, perché la sua interpretazione del dettato evangelico e paolino deriva dalla personale esperienza di vita[24].

Gregorio apparentemente sovverte l’ordine di rappresentazione convenzionale del peccato originale con il corpo quale fomite della disobbedienza, focalizzando l’attenzione sul tempo dell’innocenza in cui la coppia dell’Eden, vivendo la comunione d’amore con Dio, esprime la bellezza della bontà: “L’uomo era nudo, privo di vesti di pelle morta, guardava senza vergogna il volto di Dio”[25]. Quando l’anima dell’uomo era parte dello Spirito divino, riflettendone la volontà in uno stato impossibile ai mortali e reso perfettamente dall’immagine del “guardare il volto di Dio”, il corpo splendeva dell’integrità conferita dalla purezza, intesa come totale assenza di desiderio. È la mente di Eva che, accettando l’insinuarsi della tentazione, o separazione fra sé e lo Spirito divino, attrae la mente di Adamo nel luogo di indipendenza, ossia fuori della volontà di Dio. In questa condizione di peccato, che nasce nell’animo umano, il corpo non è più quiescente per lo spirito e non è più naturalmente sottomesso alla volontà di Dio: desidera per sé.

Si comprende, allora, perché per Gregorio esiste una nudità assoluta o primaria che non è vergognosa perché esprime la purezza incontaminata dell’essere per Dio, e un esporre nudo il corpo del desiderio, che in quanto tale è peccato agli occhi del Signore e suscita vergogna nell’uomo. La coscienza edenica non nasce dalla carne (sarx) ed è in continuità con quella divina; la coscienza del peccatore è espressione del suo corpo mortale.

L’immediatezza e la semplicità con la quale Gregorio fornisce i segni che connotano di sudicio e repellente la bassezza egotica del peccato, contrapposta all’attraente valore della purezza oblativa, sono di una estrema efficacia: è il peccato che ha rivestito gli uomini di dèrmasi necroîs ossia della pelle morta degli animali, che nasconde la pelle viva diventata indecente, ed è la “tunica di pelle morta”[26] che costituisce il corpo della vergogna; e la sarx, ossia il corpo che ha assunto il nome che si dà alla carne della carcassa degli animali, è intrinsecamente sporca e fangosa, da vergognarsene.

 

7. Considerazioni per una conclusione provvisoria in attesa di altre riflessioni. Ben pochi, tra i maestri di pensiero contemporanei, hanno il coraggio di ammettere che l’aver fatto del “consumo sessuale” una sorta di diritto civile ha determinato una mutazione antropologica, dalla quale è difficile tornare indietro. Il cambiamento della morale sessuale, ma soprattutto l’interpretazione corrotta del pensiero sviluppato in seno alle filosofie e alla religione che ha maggiormente influenzato il pensiero occidentale, ha creato una condizione di disordine entropico diffuso nella rete sociale dei rapporti che obbliga costantemente all'adeguamento del giudizio.

Vivere nel piacere causa abbrutimento, non solo perché dopo un poco il “piacere non dà più piacere”, ma anche perché il protrarsi artificioso dello stato neurofunzionale che si accompagna allo stato edonico crea squilibri fisiologici per ragioni che approfondiremo in un prossimo scritto. Tuttavia – e rilevare questo fa ancora più impressione – non è il fine edonico ad animare propositi e piani della maggior parte delle persone che, in tal modo, costituiscono delle contraddizioni viventi, in quanto rifiutano la rinuncia oblativa, ma non concepiscono un piano nicciano a sostegno degli istinti sulla falsariga del pensiero dell’interlocutore socratico Callicle citato da Platone, rimanendo tutta la vita in una terra di mezzo nella quale finiscono per lasciarsi vivere dalle circostanze e dalle urgenze.

La pratica di rapporti sessuali precoci e spesso indiscriminati fra giovani, oltre ad aver cancellato la dimensione delle grandi passioni amorose ispiratrici di opere d’arte e imprese di dimensione storica, ha involgarito e degradato lo stile dei rapporti interpersonali. Inoltre, credo che abbia contributo a mortificare, coartare, misconoscere e in parte distruggere la dimensione spirituale e ideale. Si può osservare che la corruzione dei costumi e il degrado morale accettato come norma sono caratteristica costante nella storia del declino di ogni civiltà; la differenza è che ai nostri giorni la decadenza non riguarda un popolo, un impero o una civiltà, ma il mondo intero.

La dimensione ideale è necessaria tanto per il credente quanto per l’ateo che si ponga domande sul senso della vita e di tutta la realtà conoscibile. Nel caso del credente, la necessità è bene esemplificata dalle incongruenze rilevate da Galileo Galilei nel Libro della Genesi nel quale, ad esempio, in un passo si dice che l’uomo fu creato dopo tutte le altre creature e in un passo successivo si parla di animali creati dopo l’uomo, per lui. Galileo non fu certo il primo a rilevare questa contraddizione – basti pensare ad Origene e ai primi esegeti allegoristi – e non è stato l’ultimo a giudicare un testo della sacra scrittura col metro del rigore cronologico, che si impiega per stimare l’attendibilità storica dei contenuti di un documento del passato. Se non adoperiamo un registro ideale che consenta di accedere a un senso astratto complessivo, le pergamene della Torah corrispondenti al nostro Pentateuco sono dei vecchi documenti mille volte trascritti e tradotti, il cui valore può certo essere misurato secondo criteri di storicità o scientificità dei contenuti[27]. Un registro ideale, già da atei, agnostici o credenti in altro, ci consente di apprezzarne antropologicamente il valore fideistico e religioso; da credenti di religione ebraica o cristiana ci consente di anteporre la lettura anagogica del testo al giudizio materiale dell’oggetto di scrittura secondo metodi e criteri di discipline nate in seno alla cultura umana.

Anche l’ateo – e come tale intendo colui che nega l’esistenza di Dio per una convinzione derivata da studio e riflessione ragionata – per poter giustificare una realtà non generata come conseguenza di un senso pre-esistente (volontà creatrice), ma sviluppata meccanicisticamente sotto l’egida del caso e la spinta della necessità, deve ricorrere ad una dimensione ideale entro cui elaborare la plausibilità di tesi che, in assenza di dogmi, richiedono sempre dimostrazioni e sistemi di riferimento che le convalidino. Senza questa dimensione ideale, l’ateismo rischia di costituire solo una versione adulta dell’atteggiamento psicologico del bambino immaturo, che si lega al mondo delle soddisfazioni materiali per conservare una vita dominata dal “principio di piacere”, negando nei fatti e nel comportamento di rifiuto delle regole, l’esistenza dei genitori, quali veicoli della realtà di responsabilità adulta nella loro coscienza.

La cultura cristiana si contrappone al mélange attuale di neopaganesimo, agnosticismo, ateismo e forme minoritarie di culti e credenze, anche per un aspetto tutt’altro che marginale, anzi tanto rilevante da essere ignorato, come vuole l’apparente paradosso della moda corrente di trascurare con sistematicità e compiutezza direttamente proporzionali alla portata del problema, tutte le questioni di alta criticità morale. La contrapposizione riguarda la concezione della verità. Mi riferisco, in particolare, ad uno solo degli innumerevoli aspetti sui quali ci sarebbe da discutere e magari dibattere a lungo: la verità nella sostanza del cristiano opposta alla verità nella forma del mondo.

La verità della forma si presta al gioco, inteso tanto nel senso di “escursione dei significati” quanto nel senso di “rappresentazione creativa”[28]. Il suo peggiore uso degenerato consiste nei giochi formalistici che consentono di affermare il falso come vero.

La verità della sostanza si basa sul credo dell’essenza: Dio Creatore è essenza assoluta di amore e misericordia rivelata da Cristo, via, verità e vita, ossia modello del vivente nella volontà del Padre, col quale rimane in comunione per la vita eterna. A questo nucleo irriducibile di sostanza si ispira l’atteggiamento del cristiano. Tutto ciò che ci appare nelle Sacre Scritture, nelle tesi teologiche e nel comportamento religioso come contraddittorio e incongruo si dovrà intendere come imperfezione umana nella forma di pensieri, parole e opere che rappresentano il divino. Questa priorità della sostanza sulla forma è stato nei secoli un paradigma dello stile cristiano, bene espresso dalla valutazione benigna delle azioni compiute “a fin di bene”.

Solo un profondo e sentito esercizio di sostanza può consentire di ritrovare nei segni, intesi come indici, icone, simboli e metonimie di senso, la natura evocativa della bellezza, del suo potere di promettere felicità, generando gioia, del suo legame con la bontà generatrice di amore.

Se la bellezza è primariamente nel cervello di chi la percepisce e concepisce, allora nella sua struttura, ovvero nei segni che la rivelano, credo si possano ritrovare le ragioni operanti nel corso dei millenni e nel breve tempo della vita di ciascuno per trasformare il primo stato cerebrale di un incanto in una interminabile varietà di stati dello spirito.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-06 marzo 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Si suggerisce, a chi non l’abbia già fatto, la lettura dei nostri scritti dedicati alla bellezza nel 2020 (che si trovano nella sezione “Note e Notizie” del sito) a cominciare da Il Ritorno della Bellezza del 24-10-2020.

[2] Dopo la fine dell’era glaciale si svilupparono insediamenti, come quello di Göbekli Tepe del 7.500 a.C. e di Jarmo del 7.000 a.C.; dal 3.500 a.C. circa fiorirono le civiltà di Sumeri, Accadi, Babilonesi, Assiri, Ittiti, Hurriti e Cassiti.

[3] Fra le discriminanti dei Romani per giudicare barbaro un popolo vi era la presenza di valori ideali.

[4] L’attualità della pandemia da SARS-CoV-2 ha drammaticamente imposto la priorità della tutela della vita umana: un valore assoluto e non prodotto dalle consuete sinergie tra potere economico, politico e mediatico, di cui si nutre l’attualità. Eppure, molti fra coloro che sanno leggere il mondo solo attraverso il paradigma della contrapposizione politica e del tornaconto personale o di parte, invece di adoperarsi per il bene comune, sono riusciti a trasformare la sciagura pandemica con i suoi problemi, primo fra tutti quello dei lutti e del rischio di morte, in un insieme di occasioni di briga e contesa.

[5] Sfogliando i giornali d’epoca nelle emeroteche è possibile verificare che al tempo della prima diffusione di ciascuna delle principali invenzioni contemporanee nel campo della comunicazione, come telefono, radio, televisione, computer, telefono cellulare, high-phone, ecc., sono sempre stati pubblicati articoli in cui si ingigantiva la capacità condizionante dello strumento sull’uomo, che veniva rappresentato come debole, irretito e soggiogato dal potere della tecnologia e mai in possesso di normali risorse di volontà per padroneggiare nuovi oggetti e nuovi modi.

[6] Siamo tutti d’accordo sul non dare il reddito di cittadinanza ai miliardari, ma se si affronta il tema delle aliquote fiscali la discordia regna sovrana, per ragioni politiche, economiche e di difesa – spesso ad oltranza – di interessi di categoria.

[7] L’unica opera pubblicata in vita dall’ingegnere e filosofo viennese, considerato il maggior pensatore del Novecento da molti contemporanei, principalmente tra i filosofi inglesi e americani.

[8] Per comprendere come avvenga il riconoscimento percettivo è necessario rifarsi a concezioni teoriche che interpretano le evidenze sperimentali. La più dettagliata ed esaustiva è quella di Gerald Edelman, per la cui esposizione rimando alla mia illustrazione pubblicata settimanalmente su questo sito (da Note e Notizie 09-01-10 Giuseppe Perrella illustra la teoria di Gerald Edelman – prima parte alla venticinquesima parte pubblicata nel luglio 2010). Naturalmente, per i processi molecolari, cellulari e sistemici alla base delle singole modalità percettive si rinvia ai testi di neurobiologia molecolare e neurofisiologia.

[9] Le annotazioni di Leonardo per un trattato furono raccolte da Francesco Melzi in un volume impresso a stampa nel 1540. Una parte importante della missione del maestro di pittura consisteva nella correzione degli errori; celebre è la frase: “Massime è ne li pittori lo difetto”, con la quale si introduceva il modo giusto di operare. Ricordiamo che, quando Leonardo poté vedere i dipinti della Sistina di Michelangelo Buonarroti, notò nelle figure l’errore di eccesso di prominenza dei muscoli antagonisti rispetto agli agonisti, per effetto di una contrazione innaturale, e criticò: “Li ha fatti come sacchi di noci”. Naturalmente si trattava di una concessione di Michelangelo allo stile monumentale dei corpi, ma per Leonardo rimaneva un errore rispetto al “vero”.

[10] Grande attenzione critica ai nostri giorni è stata rivolta all’uso della punizione e del premio nelle derive ricattatorie delle forme autoritarie di insegnamento, ma credo che il ruolo virtuoso e necessario del limite per l’efficacia dell’atto oblativo dell’insegnare e perché dia frutti la buona volontà nell’apprendere, sia stato spesso sottovalutato.

[11] Tipici esempi di classe chiusa sono quelli delle figure geometriche: la classe dei triangoli, dei quadrati, ecc.; esempi di classe aperta sono i veicoli, gli elettrodomestici, ecc.

[12] Infatti, è più facile ingannare l’interlocutore sulla comprensione del senso di una classe chiusa, perché ciascun membro della classe può essere ritenuto un analogo morfologico di un prototipo e il bambino può usare processi associativi semplici per decidere l’appartenenza di un elemento a quella classe in base alla somiglianza percettiva.

[13] Caratterizzata con qualità che ricordano alcune delle “beatitudini” nel Discorso della Montagna. Ho discusso del personaggio, attraverso la Cenerentola di Walt Disney (1950), in rapporto al desiderio irrealizzabile definito “sogno” (v. Note e Notizie 04-07-20 Il desiderio tra sogno e responsabilità).

[14] Ne esistono tante versioni, la più nota delle quali è quella di Andersen; in alcune si parte da un cavallo, e l’asino è già frutto di un baratto.

[15] Note e Notizie 20-06-20 Il desiderio e la mente.

[16] L’aspetto apparentemente contradditorio di questa concezione – ma le incongruenze sono quasi la regola del presente – consiste nel fatto che Pretty Woman è stato reso un film cult da associazioni di donne. Il ruolo di prostituta è stato aspramente combattuto per decenni dalle femministe, che lo consideravano un prodotto becero della più retriva e deprecabile concezione maschilista della donna. Prostituirsi era considerato il mortificante “ridursi a oggetto da usa e getta a pagamento” rinunciando alla dignità di persona, che “vale solo in quanto può soddisfare l’incontinenza sessuale dei maschi”. In Italia, Alba Parietti ed altre opinioniste del mondo dello spettacolo hanno sostenuto che tutte le donne dovrebbero fare l’esperienza della prostituzione. Portare come regola la mercificazione nel corpo e nelle emozioni: difficile immaginare una cosa più lercia o un modo più capillare per affermare il culto idolatra del denaro.

[17] È invece definito spesso infame e vergognoso l’atto omoerotico tra adulti (cfr. Franco Rella, Figure del Male, p. 116, Feltrinelli, Milano 2002).

[18] Il termine può dar luogo a fraintendimenti perché nelle traduzioni italiane della Bibbia, inclusa quella della CEI, a volte traduce il termine greco pornai usato genericamente per indicare atti di lussuria, in altri casi, ad esempio nel Nuovo Testamento, traduce il vocabolo ebraico che indicava i rapporti incestuosi o il concubinato.

[19] Note e Notizie 17-10-20 Metis alle origini del concetto di intelligenza, si veda nella “Seconda parte”.

[20] Note e Notizie 17-10-20 Metis alle origini del concetto di intelligenza, idem.

[21] Cfr. Will Durant, Storia della Civiltà – La Grecia, vol. II, libro terzo: L’Età dell’Oro (480-309 a.C.), pp. 69-70, Edito Service S. A. Ginevra (1939-1966) con Arnoldo Mondadori Editore (per l’edizione italiana: 1956-1966), Ginevra 1966. Cfr. anche il citato saggio di Monica Lanfredini.

[22] Cfr. Will Durant, op. cit., p. 70.

[23] Memorabile la gaffe di Umberto Galimberti, autore della voce “vergogna” in un dizionario di psicologia, che in una trasmissione di Corrado Augias aveva annunciato con aria solenne l’etimologia della parola da un presunto “vereo gognam” latino. Tullio De Mauro, linguista e lessicografo professore di Umberto Eco, corresse in un articolo (l’Unità, 03-01-10) la falsa etimologia, di pura invenzione e caratterizzata da un grossolano strafalcione: il verbo latino è “vereor”, un deponente, e la parola “gogna” è italiana, e di molto posteriore. Ma soprattutto, notava il professore De Mauro, non è necessario consultare un dizionario etimologico perché è su tutti i vocabolari di italiano l’origine di “vergogna” per progressiva corruzione del latino “verecundia”. Accanto a questa origine, ricordiamo quanto riportato in documenti fiorentini antichi, in cui si attribuisce la nascita della parola in Fiorenza, in occasione della punizione inflitta ai bancarottieri, falsari e frodatori mediante il batticulo del condannato sulla “pietra dello scandalo” nella loggia del mercato nuovo di Firenze. Il batticulo era offerto come spettacolo al pubblico ludibrio, per il quale – si dice – venivano chiamati ragazzi e ogni sorta di persone “a ver gogna”. Dunque, se la parola esisteva già come corruzione di verecundia nel medioevo, coloro che contribuivano a diffondere il volgare letterario di Dante, Petrarca e Boccaccio l’avevano rigenerata secondo questo intendimento semantico-lessicale.

[24] San Gregorio Nisseno, figlio di Basilio il Vecchio e fratello di San Basilio Magno, sperimentò la castità ascetica nel convento fraterno e assunse la sorella Macrina a modello di perfezione verginale.

[25] Gregorio di Nissa, Perì Parthenías o De Virginitate XII, 4 (tradotto dall’ed. francese: Traité de la virginité, Sourches chrétiennes, Cerf, Paris 1966).

[26] Gregorio di Nissa, op. cit., idem.

[27] Così come il papiro chirurgico di Edwin Smith è importante perché registra la prima descrizione anatomica nota della corteccia cerebrale e la prima connessione a lesione cerebrale di sintomi motori e del linguaggio, il Pentateuco o Torah ha valore perché registra la Legge di Mosè. Si ricorda che il papiro menzionato, decifrato e tradotto da James Breasted nel 1930, è una trascrizione datata intorno al 1600 a.C. di un testo ritenuto di molto anteriore (forse intorno al 3500 a.C.) e, con ogni probabilità, costituiva lo scritto medico più importante dell’antichità fino a Ippocrate. Vi figura in pittogrammi geroglifici sei volte la parola “cervello”, delle otto in cui ricorre complessivamente in tutti i papiri ritrovati, costituendo la traccia più remota di una cifratura linguistica del nostro organo più importante.